Il percorso umano più autentico che dal perdono porta alla gioia della riconciliazione, alla libertà, ad una pace ritrovata, ad un nuovo inizio nelle relazioni con gli altri ed alla gioia della riconciliazione, è uno dei passaggi più difficili che nella vita potrebbe accadere ad ognuno di noi.
Perdonare è un’impresa difficile per le nostre forze, se ci proviamo solo con il raziocinio sicuramente è impensabile; siamo legati troppo al risentimento per i torti ricevuti, ai desideri di rivendicazione, al dolore subito ed alla memoria dell’offesa.
Come si può perdonare, allora? Come riconciliarci?
Gemma Calabresi Milite ha raccontato ai nostri ragazzi ed agli amici presenti in Kayrós ieri pomeriggio tra cui il sindaco Dario Veneroni e l’assessore Marianna Vannucchi, il suo personale percorso di fede, perdono e riconciliazione iniziato il 17 maggio 1972 con l’omicidio del suo amato marito il commissario Luigi Calabresi detto “Gigi”.
“Chi dice la verità non tradisce mai”, cosi Gemma termina il suo libro La crepa e la luce il racconto di un cammino, quello che lei stessa ha percorso dal giorno dell’omicidio del marito, cinquant’anni fa, ad oggi e che, a detta sua non è ancora terminato.
Scorrendo tra le pagine del libro traspare molto forte il dolore provato da Gemma, in fondo era una ragazza di soli 25 anni quando le strapparono il marito, cosi giovane, con due bambini piccoli Mario di 2 anni, Paolo di 11 mesi ed uno in arrivo Luigi; ma si sente fortissimo anche il messaggio di speranza che lei vuole fortemente trasmettere a tutti coloro che si avvicinano alla sua storia; una testimonianza di fede e di fiducia.
Per arrivare all’alba, non c’è altra via che la notte
Khalil Gibran
Gemma incontra Gigi per la prima volta ad una festa a Milano, tra i due è amore a prima vista; la coppia si sposa nel 1969.
Luigi Calabresi è uno degli incaricati per le indagini della strage di Piazza Fontana ed il suo nome è sulla bocca di tutti soprattutto dopo la morte di uno dei sospettati Giuseppe Pinelli.
“Mi disse quello che gli raccontarono i colleghi presenti lui non c’era, Pinelli era caduto; Gigi non era nella stanza e dall’accaduto ne uscì distrutto tanto che quella stessa notte non chiudemmo occhio”.
Da qui partono una serie di avvenimenti assurdi, l’opinione pubblica inizia ad etichettare Calabresi come causa della morte di Pinelli ed iniziarono le minacce, sia a lui che a Gemma “Calabresi finirai come Pinelli” si leggeva sui muri vicino a casa; divenne il capro espiatorio dell’accaduto tutto a causa delle bugie che si erano sparse a macchia d’olio tra la gente; divenne l’obiettivo dei terroristi di allora.
Erano gli Anni di Piombo, era fortissimo il disagio giovanile e la rabbia che i ragazzi provavano, Luigi aveva contatti con molti di loro, si era sempre chiesto il perché ci fosse così tanta sofferenza, tanto da spingersi davanti alle scuole per parlarne direttamente e provare a capire da cosa scaturisse così tanto odio.
Il 17 maggio 1972 era un mercoledì, Luigi Calabresi venne assassinato in via Francesco Cherubini, gli spararono alle spalle mentre si avviava alla macchina per andare a lavoro. “Era uscito e poi era tornato indietro per cambiarsi la cravatta, ci ha sempre tenuto molto. Quella mattina era elegantissimo ed usci prima conuna cravatta di seta rosa tornando poi per cambiarla con una bianca e mi chiese: come sto? Stai bene Gigi ma stavi bene anche prima, gli risposi. Mi disse che era il simbolo della sua purezza”.
Secondo Gemma furono parole premonitrici a quello che sarebbe accaduto da li a breve.
“Quella mattina del 17 maggio dopo che spararono a Gigi arrivò a casa un amico di papà che abitava di fronte a casa nostra; era pallidissimo e non riusciva a parlare, capii subito che era successo qualcosa di grave, provavo a chiamare in questura ma non rispondeva nessuno. Poi arrivò don Sandro il nostro parroco, lo implorai di dirmi la verità e lui mi disse in modo diretto che era morto. Mi accasciai su divano, avevo addosso un senso di devastazione totale, mi guardai intorno e tutto di colpo perse senso”.
Gemma continua il racconto, spiegandoci che dopo i primi momenti di dolore lancinante provò una sensazione ovattata, una pace avvolgente, una forza interiore incredibile. “Avvertii come dei flash che non ero sola, che ce l’avrei fatta. Chiesi a don Sandro di recitare un’Ave Maria per la famiglia dell’assassino che, pensavo, stesse sicuramente provando un dolore più grande del mio”.
Col tempo Gemma capì che era la presenza di Dio che la aiutò così fortemente, che le fece sentire di non essere sola.
Nei giorni successivi ebbe fantasie di vendetta, immaginava di infiltrarsi nei covi dei terroristi diventargli amica ed aspettare il momento giusto per vendicarsi sparando all’assassino di suo marito e questo pensiero sembrava darle soddisfazione.
Ma si rese conto che questa soddisfazione era effimera, fortunatamente aveva con lei la fede e l’aiuto di Dio, ma anche questo non le dava una totale serenità; la vera svolta per Gemma fu intraprendere un cammino verso il perdono lungo 15 anni, cominciato dopo aver ricevuto verità e giustizia in seguito al processo ed alla condanna dei colpevoli.
Ma non solo, Gemma era anche un insegnante di religione ed uno dei suoi studenti un giorno le chiese “Perché quando uno muore se ne parla sempre bene? Muoiono solo i bravi?”, la sua risposta fu “No, ma bisogna ricordare l’esempio positivo che ci hanno lasciato”; lo scambio di battute le rimase in mente ed iniziò a pensare che gli assassini del suo Gigi non erano solo questo, che andando oltre c’era molto di più e che lei non aveva diritto di relegarli per tutta la vita all’atto peggiore che avevano compiuto, lei avrebbe dovuto restituirgli umanità e dignità.
La parola “Perdono” purtroppo non è spesso utilizzata, Gemma lo rimarca molto bene ma è molto importante capire quanto fa bene tutto quello che arriva dal cuore, è un toccasana per chi lo riceve ed il perdono, se arriva dal cuore è un vero e proprio atto d’amore, una forza che ci permette di essere liberi.
Ad oggi i suoi figli ancora non sono riusciti a perdonare le persone che hanno portato via il loro padre, hanno mostrato rabbia per la forte mancanza che sentivano, ma hanno anche scelto di incontrare due di loro, Leonardo Marino e Giorgio Pietrostefani (l’organizzatore dell’attentato) per capire come mai avessero compiuto quel gesto; in particolare Leonardo Marino al termine dell’incontro ha detto ad uno dei figli di Gemma “I terribili sensi di colpa, che ogni giorno mi aggrediscono, dopo la vostra conoscenza sono diventati più leggeri”.
Gemma ha condiviso con noi un aneddoto che, ci dice, hanno avuto nella sua vita un’importanza grande; un incontro casuale fatto ad una fiera d’arte dove un uomo riconoscendola la fermò e le disse “ho conosciuto suo marito e gli devo tutto, avrei potuto imbracciare il mitra se non fosse stato per lui, suo marito mi ha salvato la vita”.
Quest’uomo hai tempi dell’incontro con Luigi Calabresi era un giovane ragazzo che durante gli Anni di Piombo si era trasferito dal Sud Italia, si sentiva spaesato ed era finito in compagnie sbagliate che gli avevano inculcato le loro idee convincendolo a fare varie cose partendo dal semplice volantinaggio fino al lancio di una molotov che causò il suo arresto; da qui la conoscenza con il Commissario Calabresi, che negli anni a seguire non lo lasciò una attimo, standogli vicino e facendogli capire che non era solo.
Proprio su questo episodio Gemma si è soffermata molto chiedendo ai ragazzi presenti di riflettere … quanto vale la pena, per omologarsi al gruppo e agire senza pensare, fare cose seguendo un’idea che altri hanno avuto e quanto invece è importante mantenersi integri portando fino in fondo il nostro pensiero individuale ?
E se è vero che il dolore per una perdita come quella subita da Gemma Calabresi non passa ma si impara a conviverci, è anche vero che lei stessa ci ha salutati con una frase che ci ha fatto e ci farà a lungo riflettere: “non vorrei avere una vita diversa, perché non avrei mai intrapreso questo cammino di amore e perdono”.