Marisa Fiorani è una donna, una mamma e una nonna con una storia segnata dalla Sacra Corona Unita. Fa parte dell’associazione Libera, con la quale la nostra comunità ha iniziato un percorso sul tema della memoria.
Sua figlia Marcella Di Levrano a 26 anni è stata uccisa a sassate sul volto per non permetterle di raccontare ciò che aveva visto e la realtà che aveva conosciuto. L’incontro con questa mamma ha fatto conoscere ai ragazzi di Kayròs le fragilità e le fatiche del vissuto della sua famiglia, ma allo stesso tempo la responsabilità nel far conoscere questa storia perché il dolore non sia vano. Ma come è possibile che un dolore non sia vano? Questo è emerso sia dalla profondità delle domande dei ragazzi, sia dalle sue risposte.
Hai il cuore in pace?
Il pensiero è sempre lì, non mi sento di aver tradito o mancato ma ho fatto quello che era nelle mie capacità. Il dolore non passerà mai, ma il fatto di essere qui stasera mi permette di essere libera da quel dramma e cioè mi dà la possibilità di continuare la vita secondo quello che la vita mi propone.
Tu hai perdonato?
Dopo aver camminato tanto mi sono accorta che mi mancava qualcosa: incontrare il dolore che c’è dall’altra parte. Nel 2016 ho cominciato a frequentare il carcere e ho capito che da solo nessuno si può salvare. Non volevo continuare a camminare a senso unico. Stasera mi sento accolta da voi e questo mi dà la forza di continuare. Quando sono entrata per la prima volta in un carcere di massima sicurezza non sono andata lì perché volevo perdonare, questo è compito del Padreterno. Però posso accogliere l’altro. Io andavo sempre al cimitero a trovare mia figlia e Melissa, un’altra ragazza uccisa, e dopo tanti anni mi accorgo che c’è anche l’esecutore materiale della morte di Marcella sepolto non molto lontano da loro. Vado verso la tomba per dare un calcio a quella tomba e quando arrivo e vedo la faccia, mi accorgo che è la faccia di un ragazzino, e mi ha fatto compassione. Io posso solo accogliere ma il perdono è del Padreterno. Io accolgo come mi sento accolta quando entro in carcere. Ho la possibilità di entrare nel cuore delle persone detenute, come loro entrano nel mio cuore.
Nel momento in cui hai avuto la notizia, come hai fatto ad andare avanti portandoti dentro un dolore così grande?
Non ci sono parole per raccontare il dolore. Io ho dovuto riconoscere mia figlia da un piede, da una cicatrice. Io volevo scoprirle il volto ma non me lo permettevano perché il masso accanto a mia figlia le era stato dato sul volto. Dopo l’accaduto mi sono sentita responsabile di mia figlia, delle altre mie figlie e di me stessa come se avessi un compito. Sono tornata a fare la vita di sempre. E mi ricordo che un giorno mi si è avvicinato un ragazzo ed era insieme a un altro e mi chiedevano i soldi alla fermata del tram. E io glieli ho dati dicendogli di andare a comprarci il pane e gli ho chiesto di ascoltare prima la storia di Marcella, e non dimenticherò mai l’abbraccio e le lacrime di quel ragazzo che poi mi ha raccontato che i suoi genitori credevano che lui avesse un lavoro a Milano e invece aveva iniziato a drogarsi e viveva per strada con l’altro ragazzo, che era suo fratello. Allora gli ho detto di tornare da sua mamma… Non so che fine hanno fatto perché dal giorno dopo non erano più per strada, non so se sono tornati dalla mamma o se hanno solo cambiato zona, ma cominciare a parlare di Marcella è stata una grande occasione, anche se in tanti mi dicevano di tacere e di non raccontare questa storia perché era pericoloso. Ma io non avevo nulla da perdere, visto che non può esserci dolore più grande di quello che già sto vivendo. Io non ho paura. Il dolore non passa e non è passato ma la ferita può essere accolta e guardata, ma non da soli. Perché da soli non ci si può salvare.
Ilaria Malinverni