Esattamente un anno è passato, un anno dallo scoppio di una pandemia che ha cambiato e sconvolto le nostre vite e le nostre abitudini.
Un anno in cui abbiamo imparato nuove parole, a convivere con una maschera reale e a mantenere delle distanze fisiche in nome della salute.
Un anno che ha portato le famiglie a confrontarsi con problematiche antiche e all’emersione di nuove difficoltà, peraltro latenti nelle famiglie moderne.
La difficile convivenza dettata dai diversi DPCM usciti nel corso di quest’anno ha acuito uno scontro generazionale in corso da diverso tempo: da una parte dei genitori che faticano a confrontarsi, relazionarsi e comprendere dei figli con cui sono obbligati a passare più tempo; dall’altra quei figli, adolescenti navigati e nativi digitali, che non sentono più la necessità di trovare le domande tipiche della loro fase di vita nei genitori, che potrebbero fornire risposte scomode e su cui riflettere, preferendo ricercarle in rete visto l’accesso illimitato che hanno al WorldWideWeb, interlocutore spesso considerato più autorevole e affidabile di figure genitoriali considerati dagli stessi assenti o poco interessanti.
Durante questo tempo passato assieme l’adulto ha avuto modo di osservare per più tempo ed in maniera più continuativa il figlio in crescita, e seguirlo anche in quelle attività di solito delegate ad agenzie educative esterne, come il percorso scolastico, in delega alla scuola, o il tempo libero, solitamente delegato ad oratori, attività sportive o passato in compagnia di un gruppo di pari.
Si è potuto così accorgere di parlare un linguaggio completamente differente da quello dei figli, spesso di difficile comprensione e immediato e di avere modalità relazionali spesso lontane da quelle del ragazzo, generando quel senso di smarrimento e di sconforto che porta a bollare una generazione di giovani come “perduta”, rinunciando così alla comprensione reale del mondo che vive e percepisce l’adolescente, spesso considerato poco competente e scarsamente interessato alla realtà che lo circonda.
Sempre più spesso, si proiettano sui figli aspettative non realizzate che generano frustrazioni nei ragazzi, che li portano in alcuni casi alla ricerca di quel benessere che non trovano in famiglia rifugiandosi nell’uso di sostanze, nell’approvazione del gruppo di pari o nell’esposizione continua attraverso un uso eccessivo dei social media.
E’ attraverso una riappropriazione della qualità del tempo passato coi propri figli, giudici severi del mestiere di genitore, che si potrà arrivare ad una migliore comprensione di quei comportamenti e di quegli atteggiamenti che ai nostri occhi di adulti possono apparire “scandalosi”: se c’è una cosa che mi ha insegnato il lavoro di educatore di comunità è che spesso tali atteggiamenti sono solo una grande richiesta di aiuto e attenzione, espressa forse in maniera eccessiva, forse nell’unica maniera che il ragazzo conosce. Il grido di aiuto che i ragazzi ci lanciano è spesso molto forte, ma lontano e quindi difficilmente udibile, o incomprensibile, perché espresso in un linguaggio di difficile decrittazione.
Ci si rifugia spesso nella risposta più facile, senza capire da dove si generano le domande: solo posando gli occhi su dove si generano tali domande riusciremo, noi adulti, a stimolare domande diverse nei nostri figli, nel mio caso nei miei ragazzi in comunità!, gettando, insieme a loro e non per loro, le basi per un futuro che possano vivere all’insegna del Kayròs.
Piero Buretti, educatore professionale della comunità “Alta Intensità”.