1. Cosa è stato decisivo per farti prendere questa strada?
Vengo da un percorso di detenzione dove ho avuto la possibilità di scontare la pena in comunità, in misura alternativa al carcere. Già quando ero in carcere mi sono reso conto che aiutando gli altri venivo riconosciuto come punto di riferimento. Questo per la prima volta mi faceva sentire importante per qualcuno, ma soprattutto trovavo soddisfazione in me stesso. Mi sono iscritto all’università scegliendo il corso di laurea in Scienze dell’educazione.
È stato decisivo incontrare dei modelli di educatori, adulti e tutte persone impegnate nel sociale che attraverso il servizio agli altri riuscivano a trovare un senso alla loro vita. Li vedevo felici e questo mi ha motivato.
2. Perché hai scelto Kayros?
Perché è stato il luogo che ha cresciuto me. Sentivo l’esigenza di dovere restituire tutto ciò che di bello avevo incontrato io, nella mia esperienza da ragazzo accolto Kayros. I principi e i valori della comunità che hanno trovato terreno fertile in me, desideravo fossero scoperti anche dagli altri ragazzi. Averli incarnati, mi è stato utile nel testimoniarli con autenticità.
3. Un educatore deve possedere doti particolari?
La maturità è il dato imprescindibile. La coerenza e l’autenticità ne fanno un buon educatore. Tuttavia, aldilà di ogni capacità, molti educatori sono come i ragazzi, in cammino, con i loro limiti e le loro fragilità, che si spera siano vissute ed emerse nella consapevolezza.
4. Oggi si parla molto di crisi degli educatori, se ne trovano sempre meno disposti a fare questo lavoro. E’ un problema legato alla scarsa retribuzione rispetto all’impegno richiesto oppure è legato a una crisi di motivazioni? O che altro?
La scarsa retribuzione purtroppo disincentiva molti educatori, usciti dall’università pieni di sogni e aspettative, a scegliere questo mestiere. Lavorare con gli adolescenti, poi, mette in crisi. Ma come la nostra comunità insegna, può diventare l’opportunità della vita per fare i conti con te stesso. È un mestiere dove occorre essere disponibili a ferirsi (o a riaprire alcune ferite) per poi guardarsi dentro ed educarsi, crescendo in quello che in realtà desideriamo trasformare di noi e che abbiamo scelto come scopo nella vita. Per aiutarmi cito Aldo Carotenuto, uno psicologo a me caro, che come tanti professionisti impegnati nella cura e nell’educazione, rivolgendosi a un suo discepolo (Apprendista Stregone) dice:
“Non una cicatrice, ma una ferita ancora aperta, non rimarginata. Ma tu sai, caro il mio Apprendista Stregone, che a proposito di quella ferita io mi servo volentieri di un gioco di parole, peraltro assolutamente legittimo sul piano etimologico: è una “ferita”, ed è una “feritoia”, un minuscolo varco che ti consente di tenere d’occhio il tuo mondo interiore, di scrutare ed indagare la parte più misteriosa e segreta di te stesso, la parte “sommersa”. Quello che ti aspetti dalla professione che hai scelto somiglia in maniera impressionante a quello che si aspetteranno i tuoi futuri pazienti da te…
In realtà quello che inconsapevolmente ci chiedono è di essere aiutati a crescere. Che poi è esattamente quello che ti aspetti anche tu dalla professione che hai deciso di abbracciare per chiudere finalmente quel famoso conto aperto in età precocissima. Ma attenzione. Io ho parlato di “crescere” e non di “guarire”. Non augurarti la guarigione. Perché se davvero la tua ferita-feritoia dovesse richiudersi, a quel punto non ti resterebbe che cambiare mestiere…”