Troppi farmaci, poca attenzione alla persona e alle tante risorse presenti nel sociale. E’ l’opinione di Maria Teresa Ferla, Direttore dell’Unità Operativa di Psichiatria Giudiziaria presso l’ASST rhodense (provincia di Milano).
Perché lei denuncia un ricorso eccessivo agli psicofarmaci nelle situazioni di fragilità?
Ci si illude che una pillola o un ricovero ospedaliero possano risolvere problemi che hanno cause profonde, radicate nella storia della persona, E’ il frutto di una concezione riduttiva dell’uomo che tende a medicalizzare i problemi e le crisi che insorgono nell’esistenza piuttosto che capire le cause profonde della sofferenza.. Naturalmente in questo frangente ci sono di mezzo anche gli interessi delle case farmaceutiche che cavalcano il disagio psicologico per aumentare i loro profitti…
Cosa invece sarebbe più giusto fare?
Si dovrebbero sostenere quelle realtà che agiscono a sostegno della persona: le famiglie, le comunità di accoglienza, i consultori, i gruppi di ascolto, il privato sociale e quella parte del pubblico che opera nel sociale, che invece sono i grandi assenti nella programmazione degli interventi di risposta alla crisi.
Molti sono preoccupati per l’aumento delle persone che si ribellano alle regole introdotte per fronteggiare la pandemia.
Di fronte a chi vive una condizione di estrema fragilità è illusorio pensare che la soluzione più efficace sia l’aumento dei controlli e delle misure contenitive e repressive. E’ invece necessario un approccio antropologico, che guardi alla persona nella sua integralità. E per questo è decisivo investire su coloro che stando vicini a queste persone possono dare un contributo in termini di accompagnamento e di cura. E comunque la mia esperienza, e non solo la mia, testimonia che chi sta soffrendo per problematiche legate ad una storia di lunga sofferenza psichica è più disponibile al sacrificio.
In che senso?
Le persone che nella vita hanno sperimentato la sofferenza hanno fatto tesoro di questa esperienza e sono più disponibili ad accettare le privazioni, ne capiscono il significato, si dimostrano più collaborative, se accompagnate ed educate a fare tesoro della loro esperienza. Perché hanno già provato sulla loro pelle quello che noi sperimentiamo per la prima volta e che a volte ci sembra insostenibile. In questo senso, io posso dire di avere imparato molto dai miei pazienti.
Giorgio Paolucci