L’IMPERFEZIONE NON DIVENTI OBIEZIONE

Da tempo Papa Francesco denuncia una deriva socioculturale della nostra società, che in maniera drammatica ma efficace lui chiama “cultura dello scarto”.

In occasione della prova di italiano per la maturità, tra le tracce proposte spicca un testo tratto da “Elogio dell’imperfezione” di Rita Levi di Montalcini, neurologa e premio Nobel. Uno studente ha sviluppato la sua riflessione attorno a questo tema indicando il rapper Baby Gang come “imperfetto ma vero, duro ma sincero”. Lungi dal mitizzare chicchessia, ci sembra di cogliere nel pensiero di questo giovane una provocazione: “Baby è esattamente questo, qualcosa di imperfetto ma di significativo per tanti ragazzi (…). Credo che il valore dell’imperfezione vada riconosciuto e celebrato, in un’epoca storica in cui i modelli di perfezione vengono meno e vincono invece le cose vere (…). La mia generazione non vuole ascoltare una moralità imposta dall’alto né tantomeno si vuole adagiare su un percorso già definito dai più grandi (…). L’imperfezione rende le persone e le cose autentiche (…) Le imperfezioni raccontano una storia, conferiscono carattere e unicità”.

Parole che suonano come una denuncia nei confronti di quella cultura dello scarto di cui sopra, erede a sua volta di una cultura improntata sulla performance: da tempo i modelli e gli stili di vita proposti fanno coincidere la riuscita personale con la capacità di ottenere un certo tipo di prestazione, nei diversi contesti (scolastico, sportivo, lavorativo, affettivo…) con esiti drammatici come un’altissima dispersione scolastica o, per gli adulti, una fuoruscita dal ciclo produttivo.  

Un’impostazione che potremmo riassumere così: il tuo valore coincide con quello che sai fare, che realizzi, che produci. Non a caso in ambito scolastico il tema della valutazione (vissuta e percepita dagli studenti solo in un’ottica punitiva e selettiva) è causa di tanto disagio dichiarato e manifesto: abbandono, autolesionismo fino ad un nuovo e drammatico fenomeno che ha visto crescere il numero di suicidi e tentati suicidi realizzati anche all’interno della scuola.

La cultura della performance poggia su una relazione adulto-giovane rivelatrice di una crisi della figura adulta, poco capace di accogliere, voler bene e sostenere il giovane in un percorso di crescita fatto anche di errori e di mancanze. Un’aspettativa di risposta che se delusa è vissuta dall’adulto come proprio fallimento, innescando una dinamica che possiamo sintetizzare nella logica del do ut des, come una sorta di ricatto: dimostra di meritare la mia stima, se cambi ti accetto, ci sto solo a patto che...

Anche la relazione genitore-figlio è viziata nel suo svolgimento da questa aspettativa di “successo” fino al paradosso di proteggere il figlio dal confronto con il dato di realtà (a scuola, nello sport, nella vita). Dato che ciò che conta è il risultato, non si accetta che possa essere negativo e si individua sempre in qualcun altro – insegnante, allenatore, compagno – la responsabilità della non riuscita.

Da dove ripartire? Cosa può generare uno sguardo “buono” – non buonista – sull’altro, non definito da una misura della sua capacità funzionale alla richiesta? Cosa può suscitare una passione educativa e una relazione capaci di accogliere il limite proprio e dell’altro in modo che non sia vissuto come un impedimento, ma come una risorsa per la realizzazione della persona stessa nelle relazioni sociali?

Ancora una volta siamo chiamati in causa noi adulti. Le sfide che abbiamo davanti si riassumono in altrettanti interrogativi sui quali è urgente lavorare per dare risposte capaci di fare breccia nel cuore dei giovani: quale responsabilità educativa e quale cultura della relazione d’aiuto comunichiamo? Come ricostruire un’alleanza educativa tra adulti e tra le diverse agenzie educative che parta dal riconoscimento del valore unico e irripetibile dell’altro (anche nella sua imperfezione) e accompagni il cammino del giovane? Quanto siamo capaci di partire dal riconoscimento che in ogni ragazzo c’è un desiderio da scoprire e valorizzare, cominciando dal dire che “tu vali”?

Claudio Burgio

About Author: Associazione Kayros

Non esistono ragazzi cattivi