Finché c’è vita c’è speranza, recita un detto popolare.
Perché – anche questo si dice – la speranza è l’ultima a morire.
Ma guardandoci intorno c’è più di un motivo che porta a dubitarne. Ucraina, Gaza, Libano, Siria, per citare alcuni nomi tristemente ricorrenti nelle cronache di questi giorni.
E poi le tante guerre dimenticate in Africa e nel resto del mondo, la gente che lascia le proprie terre, e altro ancora…
E, più vicino a casa nostra, i fatti di cronaca nera che ci parlano di delitti efferati, di giovani vite spezzate, con la paura che cresce, l’indifferenza e il cinismo di cui sono intrise tante esistenze.
Compresa la nostra. La sensazione è che il male stia guadagnando spazio, e che l’inferno sia sempre più vicino.
Troppo vicino …. forse già ci sta avvolgendo con il suo mantello.
Nel libro “Le città invisibili” Italo Calvino scrive: «L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà: se ce n’è uno è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e approfondimento continui: cercare e saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio».
“Riconoscere”: questo ci è chiesto.
Riconoscere e dare spazio nella nostra vita a ciò che la può salvare dall’inferno, a ciò che può alimentare la speranza.
Ci sono luoghi dove questo accade, ci sono persone che testimoniano la speranza.
Accade anche a Kayros, nella nostra comunità abitata dalla fragilità, da persone che hanno sbagliato ma non sono sbagliate, da gente che è caduta ma prova a rimettersi in piedi e a ripartire, accompagnata da qualcuno che scommette sul suo desiderio di cambiamento e sulla forza rigeneratrice di Chi è arrivato a morire per amore degli uomini, di tutti gli uomini.
“Anthem”, un brano del cantautore americano Leonard Cohen, ci offre un’immagine che descrive la fragilità non come un ostacolo ma come l’occasione perché la luce torni a illuminare l’oscurità nella quale siamo immersi.
Un’oscurità che non è l’ultima, definitiva parola sull’esistenza: “C’è una crepa in ogni cosa, è da lì che entra la luce”.
Nelle ferite, nella quotidiana fragilità, passa la luce del Natale, la Notizia che porta una speranza certa: Dio si fa nostro compagno di strada. Il Vangelo dice in maniera perentoria che “la luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno sopraffatta”.
Cerchiamoli, questi punti di luce, e teniamoceli cari.
Finché c’è vita c’è speranza, ma solo se c’è speranza ci può essere vera vita.
Buon Natale.
Piu’ forte dell’inferno
About Author: Associazione Kayros
Non esistono ragazzi cattivi