Mai come in questo periodo post-pandemico arrivano a noi in comunità adolescenti fragilissimi, ragazzi facili a rompersi, poco resistenti alle sfide della loro età, inesperti nel far fronte alle minime difficoltà.
Giovanissimi stressati, incapaci di controllare le emozioni, in preda a gesti compulsivi di auto ed etero-aggressività.
Si presentano da soli alle porte della nostra comunità chiedendo di essere inseriti in Kayròs. Cercano più rifugio che aiuto per una progettualità di vita che appare incerta e sfumata.
Consumano tanto (cannabis e alcool) senza problematizzare, come necessità dichiarata per contenere l’ansia.
Provengono da contesti eterogenei e – ciò stupisce – anche da famiglie abbienti.
Una volta accolti in comunità, mostrano una totale abitudine alla solitudine: ognuno per sé, l’altro non esiste o lo si interpella esclusivamente per interesse.
La dimensione comunitaria è sconosciuta, nonostante tutti i bro’ e fra’ presi a prestito dal linguaggio dei social.
L’individualismo è sfrenato, la condivisione in gruppo è impensabile.
Quest’estate, in occasione di una vacanza in montagna che comprende momenti di riflessione, abbiamo ripreso le parole che Gianluca Vialli ha rivolto ai giocatori della Nazionale italiana prima dell’avventura che ci ha portato a vincere l’Europeo: «L’obiettivo comune è più importante dell’obiettivo individuale».
Nemmeno Vialli e Mancini convincono gli adolescenti di questa generazione, nonostante il risultato finale della Nazionale Italiana abbia dato loro ragione.
I nostri ragazzi in comunità vivono nell’ansia di autoaffermazione, nel terrore di svelare la propria vulnerabilità agli altri; hanno bisogno di proiettarsi in successi, possessi, piaceri per dare un’immagine grandiosa di sé che distolga l’altro dallo spettro di essere considerato debole.
I nostri adolescenti crescono così in quel falso sé che deforma la loro originaria bellezza ed unicità irripetibile; sono talmente assuefatti al dolore da non sentire più niente.
L’educatore è colui che ascolta queste sofferenze, perché i disagi non vanno rimossi ma esaminati in profondità. In un’epoca come la nostra fortemente anestetica e palliativa, anche i giovanissimi hanno trovato il modo per affinare gli strumenti di narcosi già evidenti nel mondo degli adulti.
Raddrizzare un atteggiamento sbagliato in modo coercitivo, senza andare alla radice di quell’attitudine, non serve a nulla e non fa altro che raddoppiare il male.
Per aiutare un adolescente a non fuggire dalla realtà e ad affrontare il proprio dolore, è necessario uno sguardo di cura e di amore che vada oltre le sue debolezze: solo se gli vuoi bene, sei disposto a guardare oltre i suoi comportamenti inadeguati.
Certi atteggiamenti sono solo i sintomi di un disagio, non il male senza appello.
E il mondo adulto cosa fa? Vive nell’illusione che esista il medico che risolve tutto e che ci sia l’esperto pedagogista che cancella magicamente ogni male.
La strada è purtroppo più in salita.
Perché un adolescente guarisca dall’isolamento in cui si è cacciato, occorre un adulto che non si nasconda dietro i soliti schemi e le abituali convenzioni.
E’ necessario un adulto capace di mettersi in discussione e non rimanere inchiodato ai propri immutabili punti di vista; un educatore che sappia continuare ad amare nonostante gli innumerevoli tradimenti.
Gesù appeso su quella croce è un educatore credibile perché è rimasto amore, non si è chiuso nel risentimento.
La guarigione è un cammino fatto insieme nel quale ognuno accoglie i limiti e le debolezze dell’altro: una vita perfetta, senza fragilità, è un idolo, semplicemente non esiste.
Si è guariti quando non cerchiamo più la nostra autoaffermazione, quando allontaniamo da noi l’ansia di essere sempre al centro dell’attenzione, quando rimaniamo liberi dalla paura di essere traditi: questo è l’obiettivo comune che accomuna l’adulto come l’adolescente.
Siamo tutti in cammino, solo l’amore guarisce.
don Claudio Burgio